Continuiamo l’indagine di testi “vintage” dedicati al collezionismo minore con un testo collegato direttamente al nostro secondo numero dedicato ai portachiavi. Il testo che segue è parte del famoso testo “Collezionismo minore”, scritto da Massimo Alberini ed edito da Garzanti nel 1984. E’ un testo che fa riflettere sulle dinamiche del collezionismo e sul valore dell’oggetto collezionato: le collezioni vanno e vengono, sono spesso fenomeni momentanei e legati alla moda del momento. Eccone un esempio, buona lettura!
A suo tempo, gli italiani riuscirono a mangiarsi un po’ di soldi, investendoli in miniassegni. Fra il 1964 e il 1966, i francesi fecero lo stesso, ponendo, a torto, la loro fiducia di saggi capitalizzatori in un elemento ancora più strano e infido: i portachiavi pubblicitari. Praticamente impossibile spiegare come si sia giunti a quella specie di follia collettiva, che suggeriva di comperare portachiavi a centinaia, da allineare poi in apposite vetrinette – larghe 80 centimetri, alte 50, e contenenti 144 gancetti – cui appendere altrettanti esemplari diversi. Ma è accaduto. Probabilmente, in qualche famiglia di provincia, quell’armadietto c’è ancora, e ricorda le illusioni del papaà o del nonno.
Come sempre avviene in collezionismo, la “passione” diede origine anche a un nome di intonazione solenne e misteriosa: copoclefilia,risultante dalle iniziali co per collezionismo, po da porta, cle da chiavi (in francese clés), e dal greco philie, comune a tutte le parole del genere, per indicare amore e passione. Anche quel termine è scomparso, assieme all’entusiasmo fuori luogo per gli oggettini di allora.
La radice dell’interesse, specie per i francesi, era in parte giustificata. Le chiavi da sempre sono simbolo del possesso e dell’autorità che ne deriva. Il mazzo di chiavi di armadi, dispense, ripostigli, bauli del corredo (persino i frigoriferi erano, una volta, muniti di serratura) pendeva dalla cintura della padrona di casa, la sola in grado di aprire i luoghi dove si custodivano i capitali di famiglia: e il passaggio delle chiavi da suocera a nuora, aveva il carattere di una investitura solenna. Cerimonia analoga, quando il padre consegnava al figlio diciottenne la chiave di casa, autorizzando così ad uscire la sera. Una liturgia oggi scomparsa – c’è da immaginarsi gli sberleffi dei ragazzini, pronti alle merende fuori orario, se trovassero il frigorifero-cassaforte – ma sostituita da altre: il venditore dell’autosalone che depone nelle mani dell’acquirente le chiavi ( avviamento, portiere, antifurto) della “macchina” nuova, l’agente immobiliare che dà quelle della seconda casa, e , sia pure a livello di minor solennità, la consegna della chiave della cassetta di sicurezza. Ciò ha portato alla necessità di distinguere le chiavi che uno si porta in tasca, o appende – cassetta delle lettere, cantina, box auto – dietro la porta di casa. Di conseguenza, adozione dei portachiavi, magari ridotti a semplice targhetta di plastica.
La pubblicità ha visto subito come quei simboli potevano tramutarsi in pezzi di araldi del “messaggio”. Di qui i portachiavi réclame. Si è detto delle auto: e,non a caso, proprio le grandi marche furono le prima a utilizzare ciondoli e targhette, a quello scopo. Per i collezionisti, uno dei pezzi più ricercati, e rari, è il portachiavi della Citroen diffuso nel 1921. Lo si considera un oggetto di antiquariato industriale.
Ai pubblicitari veri e propri, si aggiunsero gli specialisti in pubbliche relazioni. La cartella del congresso, simbolo evidente della importanza della manifestazione – più roba c’è dentro, più ci si sente qualificati – ha offerto, e spesso offre ancora oggi, oltre a molti apuscoli, programmi, blocchetti per appunti, cartoline, due o tre penne a sfera, fiammiferi in bustina e altro, anche un portachiavi realizzato apposta. Mentre la “carta” finisce nel cestino, un posto in valigia per il portachiavi lo si trova sempre.
Anche questo ha incoraggiato la nascita della copoclefilia. La classificazione è agevolata dai pochi modelli, cui le fabbriche specializzate ricorrono per la realizzazione. Il pezzo più diffuso è composto da un anello, chiuso da una levetta, e portante una catena o un ciondolo. Cìè di tutto, dalla riproduzione, in metallo e smalto (le grandi case utilizzano l’argento: negli anni della sterliana a 7 mila lire, anche l’oro) del marchio di fabbrica, ai soggetti di fantasia, fino all’utilizzazione di monete vere e proprie, come fece la rivista l’ “Ufficio Moderno”, che utilizzò degli autentici “palanconi” da diceci centesimi, con l’effigie di Umberto I. Altro modello, un cerchio metallico o una spirale, con medaglione saldato direttamente sopra. Oppure, sempre il ciondolo, ma con foro, e la catenella terminante con una sbarretta da infilare nel buco: era il tipo regalato a bordo della Raffaello, e il pendaglio riproduceva la tavolozza del pittore.
La necessità di distinguersi dai concorrenti, spingeva ogni “creatore” a ideare, specie per i portachive ad anello e catena, i ciondoli più bizzarri e inconsueti. E furono quelli a invogliare i francesi alla raccolta, osservando come gli eslcusi fossero disposti a spendere per aver eil pezzo d’eccezione. Air France riservò alla clientela araba un minuscolo Corano, ridotto a pochi versetti, leggibili con la lente. I vini del Postillon unirono un altrettanto microscopico catalogo delle specialità della casa, mentre certi produttori di vini e liquori si limitarono alla mignon in edizione ridotta (e falsa: niente liquido). Le minuscole riproduzioni di oggetti abbondarono: auto, calcolatrici, televisori, o semplicemente forbici (funzionanti) e rasoi (no). Più bussole, temperini, lenti, termometri, e un vecchio oggetto che aveva entusiasmato i bisnonni, che lo usavano come ciondolo per la catena dell’orologio: la minuscola pistola, che sparava, fragorosamente, mini-cartucce a salve.
Le possibilità maggiori le offrirono i portachiavi più brutti, quelli di plastica: nel medaglione trasparente si poteva mettere qualsiasi cosa, e persino i tassisti e i piccoli bottegai regalavano ai clienti i ciondoli con indirizzo e numero del telefono. Mandando alla ditta Papilo di Grisolles, presso Tolosa, 55 franchi, si riceveva il materiale per prepararsi in casa cinquanta portachiavi personalizzati, quasi tutti con la fotografia. Nel maggio del 1966 venne celebrato, a Saint-germain-en-Laye, il matrimonio di Michel Péricard, radiocronista, e Catherine Cochet, figlia di un campione di tennis. Dopo la cerimonia, la sposina passò il velo bianco ai soci di un club di collezionisti, che lo tagliarono a pezzetti, inserendoli in centinaia di portachiavi, subito distribuiti a parenti e invitati.
Un calcolo approssimato, ma attendibile, faceva ascendere, nel gennaio del 1966, il numero dei collezionisti francesi, “liberi” o inquadrati in molti club, a circa due milioni. Tanti li giudicava l’”OBI-Journal de porte clés”, un mensile di cui si tirarono, ma per pochi numeri, 200 mila copie, che pubblicavano cronache della vita dei club, articoli e, non meno interessante come fenomeno di costume, pubblicità sul tema. L’associazione Francia-URSS invogliava ad abbonarsi alle proprie riviste culturali-politiche offrendo il portachiavi di Gagarin, il primo cosmonauta sovietico. I benefattori della casa di riposo di Asniéres chiedevano oboli per i vecchietti, compensando con la piramide di Cheope in portachiavi. Fedele al principio “venite a trovarci, qualcosa comprerete”, il Bazar de l’Hotel de Ville organizzava borse di scambio. La notizia più sensazionale venne da Casablanca (anche il Nord Africa era contagiato): un maniaco scambiò la propria automobile, una Fiat 600, contro mille portachiavi.
In Italia ci aspettavamo l’arrivo di un’ondata di entusiasmo: ma, nonostante tutto fosse pronto (Milano ospitava una delle industrie maggiori d’Europa, quella del dottor Terracini), non accadde nulla. Fra i pochi acquirenti, i soldati e i marinai che comperavano, nello spaccio militare, i portachiavi del reggimento o della nave. Anche oltre frontiera, dopo la sfuriata, sopravvenne la riflessione e, man mano, la perdita della fiducia di aver fatto un buon investimento. Si finì per pensare alla copoclefilia come una sbornia collettiva da cui ci si era svegliati con l’amaro in bocca. La rivista “OBI” aveva proclamato, nei bei giorni: Comperate oggi: nel 1979 possiederete un tesoro. Mai nessuna previsione fu così clamorosamente smentita dalla realtà (e dal buonsenso).